Posted Mar 2021
Questo approfondimento della dott.ssa Andriani affronta il particolare divieto del codice di procedura civile (art. 89) che vieta di usare espressioni ingiuriose nei discorsi e negli scritti difensivi. Oltre alla definizione della fattispecie disciplinata vengono esaminati i rimedi previsti dall’articolo 89 e poi gli aspetti procedurali e i profili di diritto penale.
Premessa
La difesa del proprio assistito nel processo civile non è meno appassionata rispetto al processo penale. La propugnazione delle ragioni e degli interessi di chi si rappresenta in giudizio comporta sempre la necessità di una difesa attenta, convincente e spesso anche accorata. Sebbene nel processo civile le occasioni di discussione orale siano poco frequenti (a maggior ragione in questi mesi, a causa delle misure di contenimento del contagio da Covid-19), la presenza di numerosi atti scritti richiede la scelta di un registro adeguato a soddisfare le esigenze difensive, che catturi l’attenzione del giudice e lo induca a sposare la propria tesi, o comunque a non ritenerla irragionevole.
Il legislatore, nel disciplinare lo svolgimento del processo, si è mostrato consapevole della necessità di prestare attenzione alla fluida linea di confine che separa la stilettata che pungola l’avversario dall’aggressione a colpi d’ascia.
Il codice di rito, nel Libro I, Titolo III, capo III, dedica due importanti norme ai doveri sottesi alla condotta processuale delle parti e dei difensori. L’art. 88 c.p.c. così dispone: Le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità. In caso di mancanza dei difensori a tale dovere, il giudice deve riferirne alle autorità che esercitano il potere disciplinare su di essi.
Il divieto di espressioni sconvenienti od offensive
Oltre ad un generale dovere di correttezza nei confronti della controparte, del giudice e di ogni altro soggetto che partecipi al processo, vi è l’espresso obbligo di correttezza nei discorsi e nell’elaborazione degli scritti difensivi. L’art. 89, comma 1, c.p.c., infatti, prevede: Negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti al giudice, le parti e i loro difensori non debbono usare espressioni sconvenienti od offensive, cioè di espressioni che abbiano un grado elevato di lesività della dignità dell’avversario o che, pur non gravemente offensive, siano comunque inopportune nella dialettica processuale.
La natura offensiva o sconveniente delle espressioni usate in giudizio si può ricostruire in termini negativi, alla luce delle numerose pronunce giurisprudenziali nelle quali viene esclusa l’operatività dell’art. 89 c.p.c. Infatti, la Corte di cassazione ha affermato che non può essere disposta, ai sensi dell’art. 89 c.p.c, la cancellazione delle parole che non risultino dettate da un passionale e incomposto intento dispregiativo e che, pertanto, non possono essere qualificate offensive dell’altrui reputazione le parole che rientrando in modo seppure graffiante nell’esercizio del diritto di difesa, non si rivelino comunque lesive della dignità umana e professionale dell’avversario (cfr. Cass. civ. n. 26195/2011; n. 17325/2015; TAR Marche-sede Ancona, n. 485/2020).
Quindi, il divieto posto dalla norma in esame si riferisce a quelle espressioni che, da un lato, sono totalmente estranee alle esigenze difensive e, dall’altro, si risolvono in attacchi gratuiti alla controparte. Le espressioni censurabili ai sensi dell’art. 89 c.p.c. possono avere come destinatario anche il difensore della controparte (cfr. Cass. civ., n. 12932/2007).
I rimedi previsti dall’art. 89 c.p.c.
A seguito della rilevazione di espressioni offensive o sconvenienti, l’art. 89, secondo comma, c.p.c., dispone: Il giudice, in ogni stato dell’istruzione, può disporre con ordinanza che si cancellino le espressioni sconvenienti od offensive, e, con la sentenza che decide la causa, può inoltre assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale sofferto, quando le espressioni offensive non riguardano l’oggetto della causa. La norma, dunque, prevede due rimedi: il primo è la cancellazione delle espressioni sconvenienti od offensive, che può essere disposta dal giudice anche d’ufficio (Trib. Roma, sez. IX, sentenza del 04/01/2008); il secondo, è l’assegnazione di una somma a titolo di risarcimento, ma soltanto su istanza di parte, quando le espressioni cancellate non hanno alcun legame con l’oggetto della causa.
Il giudice competente
Il giudice competente a valutare la natura offensiva delle espressioni è lo stesso giudice dinanzi al quale si svolge il giudizio nel quale le medesime sono state usate. In effetti, solo questo giudice, che conosce la causa nella quale è stato adottato quel determinato linguaggio, può inquadrare correttamente le modalità di difesa adottate dai litiganti, alla luce anche dei rapporti sorti all’interno del contraddittorio. Una decontestualizzazione porterebbe a considerare offensive espressioni che, se lette nella giusta ottica, tali non sono. La competenza del giudice può dedursi dal dato normativo. L’art. 89, comma 2, c.p.c., infatti, prevede che il giudice può disporre la cancellazione delle espressioni in ogni fase dell’istruzione, presupponendo necessariamente che si resti all’interno del giudizio nel quale le espressioni sono state usate e non in un giudizio autonomo. Inoltre, il giudice può disporre la cancellazione con ordinanza, che è un atto tipicamente endoprocessuale.
Del resto, il giudizio sull’offensività o sconvenienza delle espressioni non è solo soggettivo, cioè basato sulla percezione che la parte ha delle parole indirizzatele dalla controparte, ma è un giudizio anche oggettivo, cioè legato all’oggetto della causa ed è per questo che la relativa valutazione può essere fatta solo dal giudice che conosce la causa stessa.
La competenza del giudice, come sopra delineata, conosce alcune eccezioni, individuate dalla giurisprudenza. Si tratta di situazioni nelle quali il giudice non possa o non possa più provvedere con sentenza sulla domanda di risarcimento, il che accade, in particolare, nei seguenti casi: A) quando le espressioni offensive siano contenute in atti del processo di esecuzione, che per tale sua natura non può avere per oggetto un’azione di cognizione e quindi destinata ad essere decisa con sentenza; B) quando siano contenute in atti di un processo di cognizione che, però, per qualsiasi motivo, non si concluda con sentenza (come nel caso di estinzione del processo); C) quando i danni si manifestino in uno stadio processuale i cui non sia più possibile farli valere tempestivamente davanti al giudice di merito (come nel caso in cui le frasi offensive siano contenute nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado); D) quando la domanda di risarcimento sia disposta non nei confronti della parte ma del suo difensore (Cass. civ., 16121/2009).
Anomalie processuali
Cosa accade se la parte che lamenta l’uso di espressioni sconvenienti od offensive instaura un separato giudizio per l’accertamento della violazione dell’art. 89 c.p.c. e chiede il risarcimento del danno asseritamente patito, pur non sussistendo alcuna delle deroghe alla competenza del giudice della causa principale individuate dalla giurisprudenza? Si tratta di un’ipotesi anomala, in quanto, come detto, di norma il giudice competente a decidere su tale questione è il giudice della causa nella quale sono state usate le espressioni asseritamente contrarie all’art. 89 c.p.c. La nuova causa pone una questione di competenza, che va risolta ai sensi dell’art. 40 c.p.c., potendosi configurare un’ipotesi di connessione di cause, a fronte della quale il giudice adito per secondo deve assegnare alle parti un termine perentorio per riassumere la causa dinanzi al giudice competente per il procedimento principale o, in ogni caso, a quello adito per primo.
Rapporti con l’art. 598 c.p.
L’uso di espressioni eccessivamente aggressive all’interno di scritti o discorsi formulati in sede processuale può costituire una condotta penalmente rilevante, in ragione della natura potenzialmente diffamatoria che tali espressioni possono assumere. Non a caso, il codice penale dedica un articolo alle offese contenute in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle Autorità giudiziarie o amministrative nel Capo II (Dei delitti contro l’onore) del Titolo XII (Dei delitti contro la persona). Ai sensi dell’art. 598 c.p., Non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinanzi all’Autorità giudiziaria, ovvero dinanzi a un’Autorità amministrativa, quando le offese concernono l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo.
Non è possibile, in questa sede, approfondire il rapporto tra i delitti di diffamazione e di calunnia e la fattispecie di cui alla norma in parola. Sarà sufficiente rilevare che la natura offensiva delle espressioni utilizzate nel processo o davanti all’Autorità amministrativa ne esclude la rilevanza penale quando le offese provengono dalle parti o dai loro patrocinatori e concernono l’oggetto della causa o del ricorso pendente innanzi all’autorità giudiziaria o a quella amministrativa; ciò perché la ratio legis è quella di consentire la massima libertà nella esplicazione del diritto di difesa (cfr. Corte d’appello di Milano sez. II, 12/02/2020, n.514).
Inoltre, con riferimento alla fattispecie in esame, anche dall’art. 598 c.p. si desume che la competenza a decidere sulla natura delle espressioni scritte o orali spetta al giudice della causa nella quale le stesse sono state utilizzate, analogamente a quanto detto con riferimento all’art. 89 c.p.c. (cfr. Cass. pen., sez. V – 08/02/2006, n. 6701).
Se l’attinenza delle espressioni con l’oggetto della causa o del ricorso non comporta la punibilità delle stesse, è pur vero che essa implica la possibilità che venga riconosciuta alla parte offesa una somma a titolo di risarcimento. Infatti, l’art. 598, comma 2, c.p. prevede che il giudice, pronunciando nella causa, può, oltre ai provvedimenti disciplinari, ordinare la soppressione o la cancellazione, in tutto o in parte, delle scritture offensive, e assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale. Qualora si tratti di scritture per le quali la soppressione o cancellazione non possa eseguirsi, è fatta sulle medesime annotazioni della sentenza.
Quindi, similmente all’art. 89 c.p.c., la norma penale prevede, per il destinatario delle espressioni offensive, una forma di ristoro. Dal confronto tra la norma penale e quella del codice di rito, è stata ravvisata una contraddizione, proprio con riferimento alle condizioni per il risarcimento. Infatti, mentre l’art. 89 c.p.c. consente il risarcimento quando le espressioni offensive non riguardano l’oggetto della causa, l’art. 598, comma 2, c.p. ammette il risarcimento anche quando le espressioni attengono all’oggetto della causa. La giurisprudenza, tuttavia, ha affermato che il conflitto tra le due norme è soltanto apparente, in quanto il riferimento alle offese che non riguardano l’oggetto della causa contenuto nell’art. 89 c.p.c., va inteso come riferibile alle offese “non necessarie alla difesa”, sebbene a essa non estranee (Cass. pen., sez. V – 08/02/2006, n. 6701), mentre il riferimento alle “offese che concernono l’oggetto della causa” contenuto nell’art. 598 c.p. va inteso come riferibile a quelle offese che, pur non necessarie, siano comunque strumentali alla difesa (ibidem). In definitiva. le due norme finiscono con il coincidere sul piano dei presupposti del risarcimento, che può derivare dall’uso di espressioni offensive che si rivelino strumentali alle esigenze difensive, sebbene non indispensabili a tal fine.