Posted Mag 2022
Quando un lavoratore svolge attività inventiva, nell’ambito della propria prestazione lavorativa o comunque in relazione ad essa, può essere necessario stabilire se ed entro quali limiti il datore di lavoro vanti diritti sull’invenzione del proprio dipendente e quali diritti sono invece riconosciuti all’inventore.
Prima di esaminare la tutela del lavoratore in relazione alle sue invenzioni, è opportuno soffermarsi brevemente sulla disciplina delle invenzioni industriali.
1. Le invenzioni industriali e il brevetto
In base all’art. 2585 c.c., sono invenzioni industriali “le nuove invenzioni atte ad avere un’applicazione industriale, quali un metodo o un processo di lavorazione industriale, una macchina, uno strumento, un utensile o un dispositivo meccanico, un prodotto o un risultato industriale e l’applicazione tecnica di un principio scientifico, purché essa dia immediati risultati industriali”.
La tutela delle invenzioni industriali è garantita mediante il riconoscimento di un complesso di poteri e facoltà che prende il nome di proprietà industriale, il cui contenuto varia a seconda della creazione da tutelare. Infatti, oggetto dei diritti di proprietà industriale non sono solo le invenzioni poc’anzi menzionate, ma anche, in base all’art. 1 del D. Lgs. 30/2005 (Codice della proprietà industriale), “marchi ed altri segni distintivi, indicazioni geografiche, denominazioni di origine, disegni e modelli, invenzioni, modelli di utilità, topografie dei prodotti a semiconduttori, segreti commerciali e nuove varietà vegetali”.
Con particolare riferimento alle invenzioni, i diritti di proprietà industriale non si acquistano con la semplice realizzazione dell’invenzione, ma mediante la brevettazione (art. 2, commi 1 e 2, D. Lgs. 30/2005). Con il brevetto l’imprenditore ha la facoltà di utilizzare in via esclusiva l’invenzione per tutta la durata del brevetto, indipendentemente dalla conoscenza altrui dell’invenzione. Trascorso il tempo di efficacia del brevetto, l’invenzione diviene liberamente utilizzabile ed è in tal modo acquisita al patrimonio collettivo1.
Ai fini della brevettazione (artt. 45 ss., D. Lgs. 30/2005), l’invenzione deve innanzitutto essere nuova, cioè non compresa nello stato della tecnica e non ancora divulgata. L’eventuale divulgazione non osta alla brevettazione se si è verificata nei sei mesi che precedono la data di deposito della domanda di brevetto e risulta direttamente o indirettamente da un abuso evidente ai danni del richiedente o del suo dante causa. Non impedisce la brevettazione neppure la divulgazione avvenuta in esposizioni ufficiali o ufficialmente riconosciute ai sensi della Convenzione concernente le esposizioni internazionali (Parigi, 22 novembre 1928).
L’invenzione brevettabile, inoltre, deve implicare un’attività inventiva, la quale si riscontra “se, per una persona esperta del ramo, essa non risulta in modo evidente dallo stato della tecnica” (art. 48, D. Lgs. 30/2005); deve, ovviamente, essere atta ad avere un’applicazione industriale, requisito soddisfatto quando “il suo oggetto può essere fabbricato o utilizzato in qualsiasi genere di industria, compresa quella agricola” (art. 49, D. Lgs. 30/2005).
Infine, l’invenzione deve essere lecita, cioè la sua attuazione non deve essere contraria all’ordine pubblico o al buon costume (art. 50, D. Lgs. 30/2005).
Anche nella proprietà industriale, come nel diritto d’autore, si possono distinguere il profilo morale e quello patrimoniale.
Il diritto morale è il diritto al riconoscimento della paternità dell’invenzione, secondo quanto previsto dall’art. 62 del D. Lgs. 30/2005. Esso è incedibile e imprescrittibile. Il diritto patrimoniale consiste nel potere di utilizzare in via esclusiva l’invenzione e di trarne profitto, nonché di vietarne ai terzi la riproduzione e l’utilizzo. I diritti patrimoniali sull’invenzione sono alienabili (art. 63, D. Lgs. 30/2005). Questo insieme di poteri, è quindi riservato al soggetto che ha brevettato o acquistato il brevetto, per esempio mediante un contratto di licenza.
Viceversa, il diritto di chiedere la brevettazione spetta all’inventore o a chi ha acquistato l’invenzione.
La disciplina delle invenzioni del lavoratore era contenuta, in origine, nel R. D. n. 1127/1939 (Testo delle disposizioni legislative in materia di brevetti per invenzioni industriali), in particolare, nell’art. 23, comma 2, ai sensi del quale: “Se non è prevista e stabilita una retribuzione, in compenso dell’attività inventiva, e l’invenzione è fatta nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o di impiego, i diritti derivanti dall’invenzione appartengono al datore di lavoro, ma all’inventore, salvo sempre il diritto di esserne riconosciuto autore, spetta un equo premio, per la determinazione del quale si terrà conto dell’importanza dell’invenzione”.
A tale disposizione rinviava l’art. 2590 del Codice civile entrato in vigore nel 1942. Tale norma riconosce il diritto del prestatore di lavoro a essere riconosciuto autore dell’invenzione fatta nello svolgimento della prestazione lavorativa.
A seguito dell’abrogazione del R.D. 1127/1939, la disciplina delle invenzioni del lavoratore dipendente è oggi contenuta, oltre che nella richiamata norma codicistica, negli artt. 64 e 65 del D. Lgs. 30/2005. In base alla nuova normativa, analogamente a quella previgente, i diritti del lavoratore sulla propria invenzione variano a seconda della tipologia di invenzione. Si distinguono, infatti:
− le invenzioni di servizio, ossia quelle realizzate “nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o d’impiego, in cui l’attività inventiva è prevista come oggetto del contratto o del rapporto e a tale scopo retribuita” (art. 64, comma 1, D. Lgs. 30/2005). Per questo tipo di invenzioni lo sfruttamento economico (diritti patrimoniali) spetta esclusivamente al datore di lavoro, mentre il lavoratore/inventore ha diritto ad essere riconosciuto come autore dell’invenzione (diritto morale);
− le invenzioni d’azienda, ovvero quelle realizzate nell’ambito di un rapporto di lavoro nel quale l’attività inventiva non è assunta come oggetto del contratto e, conseguentemente, non è a tal fine retribuita. In tal caso, ai sensi dell’art. 64, comma 2, D. Lgs. 30/2005, i diritti derivanti dall’invenzione appartengono al datore di lavoro, ma all’inventore, salvo sempre il diritto di essere riconosciuto autore, spetta un equo premio qualora il datore di lavoro o suoi aventi causa ottengano il brevetto o utilizzino l’invenzione in regime di segretezza industriale;
− le invenzioni occasionali, che sono realizzate al di fuori dell’esecuzione di un rapporto di lavoro ma mediante l’utilizzo dei beni aziendali. I diritti patrimoniali su queste invenzioni spettano al lavoratore/inventore, ma il datore di lavoro ha un diritto di opzione per l’uso, esclusivo o non esclusivo dell’invenzione nonché per la facoltà di chiedere od acquisire, per la medesima invenzione, brevetti all’estero verso corresponsione all’inventore del canone o del prezzo, da fissarsi con deduzione di una somma corrispondente agli aiuti che questi abbia comunque ricevuti dal datore di lavoro per pervenire all’invenzione (art. 64, comma 3, D. Lgs. 30/2005).
Ai sensi dell’art. 65, D. Lgs. 30/2005, quando il rapporto di lavoro intercorre con un università o con una pubblica amministrazione avente tra i suoi scopi istituzionali finalità di ricerca, il ricercatore è titolare esclusivo dei diritti derivanti dall’invenzione brevettabile di cui è autore. In caso di più autori, dipendenti delle università, delle pubbliche amministrazioni predette ovvero di altre pubbliche amministrazioni, i diritti derivanti dall’invenzione appartengono a tutti in parti uguali, salvo diversa pattuizione. L’inventore presenta la domanda di brevetto e ne dà comunicazione all’amministrazione.
Le università e le pubbliche amministrazioni stabiliscono, nella loro autonomia, l’importo massimo del canone, relativo a licenze a terzi per l’uso dell’invenzione. In ogni caso, l’inventore ha diritto a non meno del cinquanta per cento dei proventi o dei canoni di sfruttamento dell’invenzione.
Trascorsi cinque anni dalla data di rilascio del brevetto, qualora l’inventore o i suoi aventi causa non ne abbiano iniziato lo sfruttamento industriale, a meno che ciò non derivi da cause indipendenti dalla loro volontà, la pubblica amministrazione di cui l’inventore era dipendente al momento dell’invenzione acquisisce automaticamente un diritto gratuito, non esclusivo, di sfruttare
l’invenzione e i diritti patrimoniali ad essa connessi o di farli sfruttare da terzi, salvo il diritto spettante all’inventore di esserne riconosciuto autore.
Come detto, quando l’invenzione è realizzata nell’ambito di un rapporto di lavoro che non prevede l’attività inventiva come oggetto del contratto, il lavoratore/inventore ha diritto a vedersi riconosciuta la paternità dell’invenzione e a ricevere un equo premio, poiché la realizzazione dell’invenzione esula dal contenuto tipico della prestazione lavorativa.
L’art. 23 del R.D. 1127/1939 non forniva criteri specifici per la quantificazione del premio spettante al lavoratore, ma si limitava a prevedere che la sua determinazione dovesse avvenire tenendo conto “dell’importanza dell’opera”. Anche l’art. 64 del D. Lgs. 30/2005 fa riferimento all’importanza dell’opera nella determinazione del premio, ma indica, quali ulteriori elementi di riferimento, le mansioni svolte, la retribuzione percepita dall’inventore, il contributo che questi ha ricevuto dall’organizzazione del datore di lavoro.
Secondo il costante insegnamento della giurisprudenza, valido anche a seguito della riforma del 2005, condizione per l’esigibilità del premio è «la brevettazione e non la mera brevettabilità» (v. Cass., 13/4/1991, n. 3991; Cass. 20/11/2017, n.27500; Cass. 06/12/2019, n.31937; Cass. 20/01/2020, n. 1111). Ciò, perché i “diritti derivanti dall’invenzione” – che in base sia all’art. 23 del R.D. 1127/1939 sia all’art. 64 del D. Lgs. 30/2005 spettano al datore di lavoro – si deve ragionevolmente ritenere siano «quelli di sfruttamento patrimoniale in regime di esclusiva nel territorio dello Stato […] che vengono a costituirsi solo al compimento del procedimento di brevettazione» (Cass. n. 1111/2020, cit.).
Pertanto, il lavoratore/inventore ha diritto all’equo premio quando la sua invenzione, realizzata nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto o di un rapporto di lavoro o di impiego, viene sfruttata economicamente dal datore di lavoro mediante il brevetto, perché solo in questo modo il datore di lavoro diviene unico titolare del diritto di sfruttare l’invenzione, diritto sottratto al lavoratore/inventore, al quale, per compensare tale perdita, viene riconosciuto l’equo premio.
Sia sotto la vigenza del testo normativo del 1939 sia sotto la vigenza di quello attuale, la giurisprudenza ha spesso utilizzato, nella quantificazione dell’equo premio riconosciuto al lavoratore, la c.d. formula tedesca, così chiamata perché adottata dal Ministero federale del Lavoro della Repubblica tedesca sin dal 20 luglio 1959. Il calcolo del premio secondo questa formula è basato principalmente sul valore dell’invenzione e consiste nella seguente operazione matematica:
equo premio = valore economico (V) x fattore proporzionale (P)
dove il valore economico consiste nel vantaggio economico maturato dall’impresa per il fatto di poter beneficiare in esclusiva dell’invenzione brevettabile conseguita dal dipendente, il fattore proporzionale misura l’apporto inventivo del dipendente e l’apporto dell’impresa datrice di lavoro al conseguimento dell’invenzione. Gli elementi che determinano il fattore proporzionale sono: posizione del problema, soluzione del problema, mansioni svolte e posizione occupata. I valori attribuiti a ciascuno vengono sommati e poi convertiti in percentuale2.
Circa l’utilizzo di questa formula, la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato che i parametri da utilizzare non possono essere esclusivamente economici, ma occorre tener conto di «numerosi correttivi volti a determinare adeguatamente […] l’importanza delle invenzioni, analiticamente valutate, e considerando il valore delle stesse sotto diversi profili comunque a prescindere dall’utilizzo concreto» (Cass. n. 1111/2020, cit.). In particolare, secondo la Suprema Corte, «per determinare le potenzialità di sfruttamento economico dell’invenzione, occorre ricorrere ad una valutazione equitativa in funzione correttiva, discostandosi dal c.d. “metodo tedesco”, onde evitare il risultato di una quantificazione parametrata sul solo valore commerciale dell’invenzione» (Cass. n. 111/2020, cit.; Cass. 27/02/2001 n. 2849; Cass. 02/04/1990 n. 2646).
Pur applicando il criterio della formula tedesca, dunque, la giurisprudenza ha privilegiato una determinazione dell’equo premio basata non tanto sul valore commerciale dell’invenzione, ma sulle sue potenzialità di sfruttamento economico, anche prescindendo dal suo concreto utilizzo. Infatti, la circostanza che il datore di lavoro non utilizzi, come pure potrebbe, l’invenzione brevettata, non attenua di per sé l’importanza dell’invenzione.
Sebbene la disciplina di cui all’art. 64 del D. Lgs. 30/2005 presupponga la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, la giurisprudenza ha rilevato – con riferimento all’art. 23 del R.D. 1127/1939 ma le medesime conclusioni valgono per la normativa vigente – la possibilità di estendere dette regole alle invenzioni realizzate dal lavoratore autonomo. Di conseguenza, «deve ammettersi, che i diritti patrimoniali derivanti dall’invenzione nascano direttamente (anche) in capo al committente che abbia commissionato l’invenzione ad un lavoratore autonomo» anche in considerazione del principio per il quale il committente acquista direttamente l’opera commissionata a titolo originario (cfr. Trib. Bologna, 29/12/2010).
Quanto ai diritti riconosciuti all’inventore, se il contratto tra il committente e il lavoratore autonomo ha ad oggetto un’attività inventiva, il corrispettivo per l’invenzione coincide con il compenso per la prestazione pattuita e non sarà esigibile alcun equo premio. L’opera realizzata, quindi, è paragonabile all’invenzione di servizio di cui all’art. 64, comma 1, D. Lgs. 30/2005.
L’equo premio non è neppure esigibile, secondo la giurisprudenza, da parte del lavoratore parasubordinato che abbia realizzato l’invenzione. Occorre premettere, infatti, che la categoria dei rapporti di parasubordinazione di cui all’art. 409 n. 3 c.p.c. ha rilievo ai soli fini processuali, il che comporta che non sono estesi a tali lavoratori tutti gli istituti sostanziali propri del rapporto di lavoro subordinato, salvo i casi di diversa previsione espressa di legge (v. ex multis, Cass. Cass. 12/041/1985, n. 2433; Cass. 03/04/1996, n.3089).
Poiché non vi è una previsione normativa, che disponga l’applicazione dell’art. 64 c.p.i. ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e, in generale, ai rapporti di parasubordinazione, ne consegue che l’equo premio ex art. 64, comma 2, D. Lgs. 30/2005 non può essere riconosciuto all’inventore assunto nell’ambito di simili rapporti (v. Trib. Bologna, 30/01/2020, n. 215). Ciò non esclude, tuttavia, che nel relativo contratto le parti possano prevedere un compenso per l’attività inventiva del prestatore di lavoro, sia o meno l’oggetto principale del rapporto.
L’art. 119 del D. Lgs. 30/2005 stabilisce che L’Ufficio italiano brevetti e marchi non verifica l’esattezza della designazione dell’inventore o dell’autore, né la legittimazione del richiedente, fatte salve le verifiche previste dalla legge o dalle convenzioni internazionali. Pertanto, dinanzi al predetto ufficio, si presume che il richiedente sia titolare de diritto alla registrazione oppure al brevetto e sia legittimato ad esercitarlo (art. 119, D. Lgs. 30/2005). Come detto, l’inventore potrebbe spogliarsi del diritto di chiedere il brevetto, nel caso in cui alieni l’invenzione, ma non può essere privato della paternità della stessa. Il diritto morale sull’invenzione può essere fatto valere di fronte alla Sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale o della Corte d’appello competente per territorio.
Dinanzi alla medesima autorità giudiziaria il lavoratore, anche se è dipendente di un’amministrazione statale, può domandare il riconoscimento del diritto all’equo premio di cui all’art. 64, comma 2, del D. Lgs. 30/2005 nonché al canone o al prezzo – nel caso di invenzioni occasionali – di cui al comma 3 del medesimo articolo. Se non si raggiunga l’accordo circa l’ammontare degli stessi, il giudice deferisce la determinazione dell’ammontare a un collegio di arbitratori, composto di tre membri, nominati uno da ciascuna delle parti ed il terzo nominato dai primi due, o, in caso di disaccordo, dal Presidente della sezione specializzata del Tribunale competente dove il prestatore d’opera esercita abitualmente le sue mansioni. Il collegio deve procedere con equo apprezzamento. Se la determinazione è manifestamente iniqua od erronea la determinazione è fatta dal giudice.
Il collegio degli arbitratori può essere adito anche in pendenza del giudizio di accertamento della sussistenza del diritto all’equo premio, al canone o al prezzo, ma, in tal caso, l’esecutività della sua decisione è subordinata a quella della sentenza sull’accertamento del diritto.
1 cfr. BALLORIANI, DE ROSA, MEZZANOTTE, Diritto Civile. Manuale breve, Milano, 2021, p. 218.
2 Per un approfondimento sul metodo di calcolo, si rinvia a https://www.equopremio.it/DET.-QUANTUM-.html.
di Giorgia Andriani