Posted Mar 2023
(contributo a cura)
Dott. Salvatore Lacopo
Il termine mobbing, preso in prestito dall’etologia, è stato scelto in origine dai cultori delle scienze medico-legali e dai sociologi per segnalare come nelle organizzazioni complesse, fra le quali spiccano le organizzazioni del lavoro, siano frequenti e diffusi fenomeni di aggressioni o, come è stato detto, di “terrore psicologico” idonei a produrre ingenti pregiudizi all’equilibrio fisico e psichico delle vittime.
Le prime teorizzazioni del mobbing nell’ambito della psicologia del lavoro, si devono allo svedese Heinz Leymann che, negli anni ‘80, utilizzò il termine per indicare le vessazioni poste in essere sul luogo di lavoro con il fine di estromettere la vittima. Questi descrive il mobbing come “il terrore psicologico sul luogo di lavoro che consiste in una comunicazione ostile e contraria ai principi etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo individuo che viene per questo spinto in una condizione di impotenza ed impossibilità di difesa, e qui costretto a restare da continue attività ostili”.
In assenza di una apposita normativa, dal momento che nell’ordinamento italiano non esiste una disciplina specificamente dedicata al mobbing, la giurisprudenza ha già da tempo definito il mobbing come “una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei membri dell’ufficio o dell’unità produttiva in cui è inserito o da parte del suo datore di lavoro, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo”.
Di conseguenza, è la stessa giurisprudenza a chiarire gli elementi costitutivi del mobbing, in particolare:
– una serie di comportamenti di carattere persecutorio – anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo sistematico, mirato e prolungato nel tempo;
– di conseguenza, ne deriva l’elemento soggettivo quale l’intento persecutorio, in quanto le condotte vengono poste in essere nella consapevolezza e con il solo scopo di esercitare una violenza fisica o psicologica sulla vittima per indurla a lasciare l’azienda o per produrgli un generico disagio;
– l’evento lesivo della dignità del dipendente, della personalità o della salute;
– il nesso di causalità tra le condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità.
Il mobbing, dunque, indica le circostanze, che vengono a svilupparsi all’interno di un’azienda, che si concretano in sistematici e reiterati comportamenti vessatori atti ad esercitare una violenza psicologica o comunque lesivi della dignità o della libertà del “mobbizzato”. A tal proposito si distingue il mobbing orizzontale dal mobbing verticale:
– Nel primo caso, i cd. “mobber” sono i colleghi di lavoro che pongono in essere una serie di comportamenti lesivi nei confronti di soggetti più deboli o dei cd. “lavoratori scomodi”, ovvero dipendenti con elevate capacità professionali e culturali. Non mancano, inoltre, i casi in cui le vittime vengono perseguitate a causa dell’orientamento politico o religioso o, anche, a causa di particolari ideali morali;
– Nel secondo caso, invece, gli atti vengono posti in essere dallo stesso capo dell’azienda che ha come obiettivo quello di eliminare il dipendente senza dover passare per il licenziamento o, semplicemente, quello di operare una ristrutturazione. Le categorie più colpite, in questo caso, sono i lavoratori con le più alte qualifiche (dirigenti, quadri) che costano molto all’impresa e spesso vengono rimpiazzati con lavoratori nuovi.
Come suindicato, una delle caratteristiche del mobbing è la sistematicità delle condotte persecutorie, poste in essere e ripetute per un ampio lasso di tempo. La scienza medica e in alcuni casi anche la giurisprudenza hanno però riconosciuto la possibilità che anche singoli episodi di vessazione possano determinare effetti lesivi, tali da giustificare una pretesa risarcitoria.
Questa forma attenuata di mobbing è stata identificata con il termine “straining” (dall’inglese “to strain”, nel significato di “affaticare, sforzare”), dovendosi osservare come anche singoli episodi di conflittualità sul posto di lavoro possano – in presenza di determinati livelli di gravità, di una particolare frustrazione personale o professionale e di altre circostanze del caso concreto – avere efficacia “stressogena” e provocare quindi un’effettiva lesione della salute e del benessere del lavoratore (come riconosciuto dalla Cass. Civ., Sez. Lavoro, n. 3291/2016).
In assenza di una disciplina legislativa specifica, la tutela del lavoratore in tale situazione ha trovato piena attuazione attraverso l’art. 2087 c.c..
Infatti, nell’ambito della legislazione ordinaria, l’art. 2087 c.c. contiene due importanti principi fondamentali del lavoratore: integrità fisica e personalità morale. Tale disposizione, oltre che norma fondante, è considerata altresì norma di chiusura del sistema di protezione dei lavoratori, in quanto la si ritiene operante sia in assenza che in presenza delle norme speciali. Inoltre, ulteriore e rilevante funzione assegnata all’art. 2087 c.c. è quella di creare un particolare collegamento tra norme speciali e contratto di lavoro in virtù del quale il contenuto del precetto normativo speciale diviene oggetto di veri e propri obblighi di natura contrattuale.
In particolare, la previsione dell’obbligo di sicurezza del datore di lavoro nell’ambito del contratto, consente di offrire al lavoratore una tutela della salute e della dignità (o personalità morale) differenziata e più incisiva rispetto a quella garantita dall’ordinamento alla generalità dei soggetti, in quanto direttamente correlata alla sua particolare posizione contrattuale di debitore della prestazione lavorativa.
La giurisprudenza, pacificamente, richiamando per l’appunto l’art. 2087 c.c., qualifica il mobbing come inadempimento dell’obbligo di sicurezza che grava ex lege sul datore di lavoro, non solo esplicitamente in quanto gli è imposto di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro“, ma anche implicitamente in quanto gli è vietato di aggredire direttamente o per il tramite di suoi ausiliari (art. 1228 c.c.) l’integrità fisica o la dignità dei lavoratori. Nei rari casi in cui, invece, le vessazioni sono perpetrate dai colleghi della vittima, la giurisprudenza consolidata, richiamando ancora una volta l’art. 2087 c.c., ritiene configurarsi un inadempimento dell’obbligo di sicurezza tutte le volte che il datore di lavoro, venuto a conoscenza della condotta molesta o vessatoria, non abbia adottato le misure idonee a farla cessare (per es. con provvedimenti disciplinari nei confronti dell’autore della condotta mobbizzante).
Dalla qualificazione del mobbing quale inadempimento contrattuale consegue la normale ripartizione degli oneri probatori prevista per le azioni fondate su un inadempimento.
In proposito le Sezioni Unite (n. 13533 del 2000) hanno stabilito che in tutti i tipi di azione (di adempimento, di risoluzione, di risarcimento) il creditore è tenuto soltanto a provare l’esistenza dell’obbligazione e a dedurre l’inadempimento del debitore, al quale spetta l’onere di provare l’adempimento o l’eventuale impossibilità di adempiere per cause a lui non imputabili. L’unica, ma importantissima, eccezione a questo regime riguarda le obbligazioni negative, dette anche di non fare o divieti, nelle quali l’inadempimento consiste in un fatto positivo compiuto appunto in violazione del divieto (art. 1222 c.c.). Qui è proprio la struttura dell’obbligazione, in base alla quale il diritto del creditore nasce soddisfatto e può essere leso solo dal successivo inadempiente agire del debitore, a capovolgere la conclusione, onerando il creditore dell’onere probatorio dell’altrui inadempimento, cioè del compimento dell’azione vietata da parte del debitore, altrimenti inammissibilmente costretto a fornire un alibi permanente.
Pertanto, nel mobbing verticale, consistente nella violazione di un divieto (come visto al paragrafo precedente), grava sul lavoratore dedurre e provare tale violazione ossia la persecuzione da parte del datore di lavoro e/o dei superiori gerarchici, come avviene per i divieti di discriminazione e di atti a motivo illecito. Spetterà poi al datore di lavoro e/o ai superiori gerarchici – secondo lo schema previsto dall’art. 1218 c.c. – dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie a tutelare la salute psicofisica del lavoratore o di non averlo potuto fare per cause a lui non imputabili.
Invece, nel mobbing orizzontale, dapprima il lavoratore deve provare la persecuzione da parte dei colleghi o dei sottoposti, che da un lato fonda la responsabilità extracontrattuale (ex art. 2043 c.c.) di costoro e dall’altro determina l’obbligo di intervento protettivo del datore di lavoro ove sia comprovata, altresì, la conoscenza o conoscibilità del mobbing in atto. Solo a questo punto scatta l’onere del datore di lavoro di dimostrare l’adempimento del proprio obbligo positivo di protezione del lavoratore mobbizzato.
I rimedi contro il mobbing sono gli stessi utilizzabili contro gli altri illeciti contrattuali del datore di lavoro lesivi della persona del lavoratore (ad es. demansionamento, controlli vietati, trasferimento illegittimo, discriminazioni). In particolare:
a) l’azione di adempimento, eventualmente anticipata in via cautelare ove sussista un concreto periculum, è la sola in astratto idonea a garantire una tutela satisfattiva. Tuttavia incontra sia un limite di fatto nei rapporti non resistenti, per il timore del lavoratore di subire un licenziamento non rimovibile se non con la difficile prova del motivo illecito di ritorsione, sia un generale limite giuridico per la nota incoercibilità degli obblighi di fare o non fare infungibili;
b) l’autotutela conservativa del rapporto può essere attuata mediante il rifiuto della prestazione non dovuta, come è anche quella da rendere in un ambiente mortificante. Questa forma di autotutela è diversa dall’eccezione di inadempimento, in cui viene rifiutata la prestazione dovuta come reazione e in proporzione all’altrui inadempimento. L’autotutela conservativa è rischiosa, perché laddove non ne siano accertati i presupposti il lavoratore risulta inadempiente, con tutte le conseguenze risarcitorie e disciplinari fino al licenziamento. Anche per questo l’autotutela non è considerata doverosa, neppure nei rapporti resistenti;
c) l’autotutela estintiva, mediante dimissioni per giusta causa, è davvero utile solo laddove il lavoratore abbia facilità di reperimento di altra confacente occupazione, altrimenti per evitare un danno il lavoratore mobbizzato se ne procura un altro consistente nella perdita del posto, per la quale non può neppure chiedere un risarcimento derivante da fatto proprio, tutto riducendosi alla indennità ex art. 2119 c.c.;
d) l’azione risarcitoria è per definizione non satisfattiva, poiché presuppone l’avvenuta lesione del bene così riparata per equivalente. Una volta accertato l’illecito, secondo la ripartizione degli oneri probatori prima trattati, il lavoratore deve provare il danno di cui chiede il risarcimento e il nesso causale tra l’illecito e il danno, che ex art. 1223 c.c. deve esserne conseguenza immediata e diretta. La prova può essere fornita anche per presunzione, provvista dei requisiti di gravità, precisione e concordanza degli indizi in conformità alla disposizione dell’art. 2729 c.c.. Il diffuso orientamento che ricava presuntivamente la prova di alcuni danni dalla gravità dell’illecito è opinabile, ma almeno esclude l’erronea tesi del danno in re ipsa e lascia spazio alle valutazioni del caso concreto nel contraddittorio tra le parti. La liquidazione equitativa del risarcimento ex art. 1226 c.c. presuppone l’avvenuta prova del danno e del nesso causale, anche se in molte motivazioni non è affatto limpida la distinzione tra i diversi passaggi logici, proprio a causa della rilevata connessione tra accertamento dell’illecito e presunzione anche quantitativa del danno. La diffusa modalità di esercizio del potere di liquidazione equitativa di alcuni danni mediante aggancio ad una quota della retribuzione mensile per tutta la durata dell’illecito esprime un’esigenza di prevedibilità della decisione, che sarebbe meglio soddisfatta mediante la introduzione di penali. I danni risarcibili sono tutti quelli identificati nella elaborazione civilistica, che agli eventuali danni patrimoniali aggiunge i danni alla persona, come quello biologico, quello esistenziale, quello all’immagine e alla reputazione e, infine, anche quello morale soggettivo in caso di reato. Qui va ribadito almeno l’auspicio che la prova di ciascun danno sia seria e si evitino duplicazioni nella liquidazione del risarcimento. Per il danno patrimoniale e biologico opera l’assicurazione INAIL, ormai estesa anche alle malattie non tabellate, per le quali è richiesta però la prova della eziologia lavorativa, ivi compreso il mobbing. In caso di indennizzo da parte dell’INAIL il lavoratore può pretendere dal datore di lavoro il risarcimento dell’eventuale danno differenziale, patrimoniale e biologico, e del danno morale da reato.